Caro Gavino Némus, ti comunico, con profonda e meditata amarezza, che il tuo meraviglioso libro La Teologia del Cinghiale non avrà il successo che merita. Oh, ne hanno parlato per alcuni giorni, certo, e ancora oggi, passate diverse settimane dalla tua presentazione, quando s’inciampa sull’argomento (per discutere di libri bisogna proprio inciamparci sopra, non c’è verso, i temi a Nuoro sono di ben altra importanza), i giudizi sono quasi tutti positivi.
Beh, positivi col sorriso, devo chiarire. Il sorriso nuorese di chi giudica in fin dei conti il risultato interessante ma leggero, la storia divertente ma banale, l’autore bravo, sì, ma vivaddio disallineato. Un prodotto, il tuo libro, bello ma fuori cultura – mi spiace.
A me l’hanno descritto semplicemente come divertente, ecco. Solo una mia amica mi ha parlato de La Teologia del Cinghiale in termini di letteratura, paragonando certe tue pagine a quelle di Gabriel García Márquez, collocandoti mille metri sopra quel pallone di Andrea Camilleri, riconoscendoti il merito di aver finalmente dipinto la vera Sardegna che ci siamo lasciati alle spalle a un certo momento degli anni ’60. Un libro profondo, costruito e intelligente. E’ per questo motivo l’ho comprato e letto, e poi ne ho prese altre copie da regalare.
La Sardegna che ci siamo lasciati alle spalle…
Ho molto riflettuto su questa considerazione e ho riletto La Teologia del Cinghiale una seconda volta tenendola ben in mente (i libri belli si rileggono più e più volte, e, se sono piccoli o grandi capolavori, ogni volta si trovano verità e illuminazioni nuove che arricchiscono).
Così è chiaro che il paese di Telévras è in fondo la rappresentazione del paese in cui siamo nati, almeno quelli della mia generazione, i nati nel dopoguerra. I matti sono i nostri matti (quanti ce n’erano!, e che rilievo davano alla vita quotidiana, alla nostra identità); Don Cossu è il nostro antico parroco, gesuita sino alle ossa e quindi pragmatico, scaltro e flessibile, tutto in funzione del suo gregge di poveri peccatori da proteggere; il maresciallo De Stefani è il classico piemontese colpito dal ‘mal di Sardegna’, arrivato non sa bene se ‘all’inferno o in paradiso’, eppure fondamentalmente razzista, zelante e incapace di comprendere; Jacheddu Piras è il carabiniere semplice sardo, quando ancora c’erano carabinieri sardi e non solo carabinieri; la camionetta è la camionetta; il cannonau il cannonau; il continente il continente, ecc. Soprattutto c’è nello sfondo quel miraggio che annebbiava tutti noi, il mito dell’Italia.
Era il periodo in cui tutto ciò che arrivava dall’Italia era più buono, più giusto, più saggio e più raffinato. E, cosa non da poco per il paese di Telévras, soprattutto più caro: dieci volte più caro. Fa niente se mangiavi il tuo stesso pecorino venduto a 100 lire al chilo a qualche rappresentante continentale e lo riacquistavi a 1.000 lire al chilo perché ci mettevano un’etichetta e un foglietto di plastica con su scritto: “Vero Pecorino Sardo”. Era tutta un’altra cosa comprarlo per quel prezzo e, poi, vuoi mettere sapere che era stato “Prodotto e confezionato ad Agrate Brianza (Milano – Italy)”? C’erano, secondo don Cossu, e il dottor Poddighe, almeno 300.000 bestie (stime approssimate per difetto), che non potevi neanche girare per strada e dovevi mungerle anche ai semafori, per fare tutto quel formaggio.
Il tutto condito da quella saggezza contadino-pastorale che può derivare solo da una civiltà millenaria, e che esplode in frasi come fucilate; da una teologia trasversale giustamente affidata al cinghiale, su sirboni (sì, perché i preti erano ancora gesuiti e non schierati col potere); dalla consapevolezza che “i piemontesi erano ancora i sabaudi e poco contava che fosse passato più di un secolo dall’unità d’Italia: quelli erano stati e quelli restavano”.
Potrei dilungarmi sulle figure di Matteo e Gesuino, i due ragazzi protagonisti, le cui descrizioni psicologiche niente a che vedere hanno con le fumettistiche rappresentazioni di siciliani o milanesi (poliziotti o quant’altro) che affollano le librerie più dipendenti (è il contrario di ‘indipendenti’). O soffermarmi sui vari dispositivi che qualificano una scrittura vissuta, pensata e ripensata, scavata e liberata; sull’uso, ad esempio, della seconda persona plurale in un momento topico della vicenda, spostando l’ottica dall’interno all’esterno, a quella di un terzo non coinvolto e culturalmente estraneo, ecc.
La Teologia del Cinghiale è una continua sorpresa, qualche volta, sì, divertente, e qualche volta invece dolorosa. Si ride e fa male, perché noi veniamo da un altro pianeta, un’ondata di profughi arrivati dalle stelle di Orione, e siamo figli del popolo di Atlantide cancellato da uno tsunami – lo sappiamo, lo sentiamo. Eppure, allo stesso tempo, eravamo (e siamo) il perfetto stereotipo del selvaggio tonto, un facile bersaglio per D. H. Lawrence, per i piemontesi (uso questo come categoria, non me ne vogliano gli amici), per Niceforo e tutta la banda dei razzisti ‘scientifici’ che ci hanno categorizzato, massacrato e marginalizzato.
Tenete a mente questo disinteressato decalogo:
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Non fraternizzate con gli indigeni.
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Ricordate loro che “Noi vi portiamo i soldi”.
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Non inoltratevi verso l’interno.
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Assumete un’aria milanese. Li tiene a distanza.
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Dite aiò ogni volta che potete. Li fa sentire felici.
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Dite anche su cunnu chi t’a coddàu. Rideranno garruli.
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Evitate le sagre della capra e della pecora.
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Donne! Non bevete il loro vino. Lo drogano per abusare di voi.
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Dite sempre che avete un amico sardo in continente. Li fa sentire insicuri.
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Non litigate mai per nessun motivo. Anche le vecchiette vi danno una testata.
Eppure tutto questo non spiega, caro Gavino Némus, la mia affermazione che il tuo bellissimo La Teologia del Cinghiale non avrà il successo che merita.
Sinora tutto quanto da me recensito è discutibile eppure ragionevole, ma il vero punto insuperabile nella strada del pieno successo è che il tuo è un libro libero di una testa libera. E parla di un paradiso perduto, quello di prima della politicizzazione selvaggia, della sbronza storica da ideologie. Quel qualcosa che improvvisamente è capitato negli anni ’60, quello scollinamento che allora sembrava aprirsi al vento della libertà e del radioso futuro, oddio, e poi si è dimostrato solo una grande trappola – ci son voluti cinquant’anni, una vita, perché la gente capisse.
La Teologia del Cinghiale parla di uno spirito comunitario che quelli della mia generazione hanno conosciuto senza pesarlo in tutto il proprio valore – forse solo oggi lo stanno riscoprendo, a discapito di tutte le resistenze dei senza cultura e memoria. Telévras è questo spirito e tu ne racconti stupendamente le varie componenti, gli attori, i luoghi, i sapori, le ricette.
Noi facevamo parte di una vera comunità sarda sia andassimo a scuola o giocassimo a pallone in periferia, sia andassimo alle gite, in campeggio, al cinema, ecc. Noi eravamo e il paese (Nuoro) era comunitario, senza accorgersene. Prima che le ideologie, come un’esplosione, ci separassero e ci spingessero dentro la gabbia malsana degli ‘ismi’.
Quanti ‘ismi’ c’erano a dividerci, a metterci uno contro l’altro, a farci dimenticare le nostre radici?
In un mondo che da un anno all’altro era diventato diverso, abbiamo cercato le nostre risposte sotto le bandiere delle ideologie, le stesse che hanno manipolato la nostra identità e che hanno spiumato anche la nostra anima rendendoci doppiamente schiavi – con i probanti risultati che vediamo sotto i nostri occhi.
Dov’è oggi Telévras?
Vedi, Gavino Némus, tu parli – per confronto – di un tragico errore che oggi viene riconosciuto da tutte le persone intelligenti, ma che ancora tiene avvinte ampie categorie di persone (è finita l’epoca degli ‘ismi’, finalmente, ma i circoli di affari, le lobby, i legami di soldi e potere esistono ancora più forti, impattanti e pericolosi).
Peraltro, la psicologia del vinto e dello schiavo è quasi impossibile da cambiare, da cancellare – ce ne accorgiamo tristemente ogni giorno.
A chi ti rivolgi dunque? Il tuo target è molto ristretto, oggi, e il tuo libro non può che essere definito divertente, renditi conto. L’arte è rivoluzione, ma gli scaffali appartengono a chi si è allineato, a chi si crede un gesuita ma è solo un raspante, a chi è nello spirito un embedded.
Eppure, eppure qualcosa si muove. Fremiti, movimenti, un ribollire, e tutto sembra convergere nuovamente verso una riscoperta di noi stessi, delle nostre radici: ecco trionfare la nostra lingua, emergere pian piano la nostra storia mai raccontata, chiarirsi una filosofia di vita unica.
Ma consolarti, caro Gavino Némus, è difficile. A noi sono riservate le ordinate, l’asse verticale delle idee, dei progetti. L’asse delle ascisse, quello orizzontale dei tempi è in mano a Dio, non a noi.
E proprio non so quando una diversa coscienza comunitaria, se mai, potrà riaffermarsi, mi spiace.
Ciriaco Offeddu
ciriacoffeddu.com