Parlavamo con Antonello, andando verso Dorgali, e mi diceva di aver notato, nei paesi dell’Europa settentrionale dove ha vissuto, un atteggiamento di attenzione paritetica del cittadino verso lo stato, di solida e circonstanziata critica. Mai d’insofferenza o astio o addirittura d’odio. Il cittadino è parte dello stato, in tutti i sensi – ne è la componente base – e in quanto tale esercita pubblicamente il suo dovere di controllo e discussione, decidendo di esporsi e partecipare. Questa critica avviene senza mai mettere in discussione il pilastro stesso dell’istituzione, giacché il senso dello stato e dell’appartenenza rimane fortissimo.
Perché in Sardegna, si chiedeva Antonello, si è creata una tale distanza, un baratro tra il cittadino e le istituzioni, e perché il cittadino non si espone per cambiare le cose? Perché tanto fatalismo?
Bisogna sempre distinguere, ho detto io – dopo aver letto La Teologia del Cinghiale di Gavino Némus e aver rispolverato il moto gesuita Numquam nega, raro adfirma, distingue frequenter, non negare mai, afferma raramente, distingui frequentemente, mi sentivo in vena di disquisire sottilmente, e così ho fatto.
Intanto, ogni paese ha la sua storia. Un primo punto di demarcazione è il momento storico di creazione dello stato, di sviluppo del concetto di nazione; una seconda linea di differenza è data dalle invasioni subite. La Francia, ad esempio, è diventata nazione nel 486 (cioè appena dieci anni dopo la Caduta dell’Impero Romano d’Occidente, avvenuta nel 476). Il re dei Franchi, Clodoveo, conquista in pratica tutta la Gallia, aderisce alla religione cattolica (“Francia primogenita della Chiesa”) e dà inizio all’epoca dei Merovingi. Rispetto all’Italia, che proclama la sua Unità nel 1861, ci separano 1.375 anni, un tempo lunghissimo. I francesi hanno avuto dunque più di mille e trecento anni rispetto a noi per sentirsi parte di un qualcosa, per consolidare nei loro geni l’appartenenza alla Francia, appunto. Tutto quello che può essere stata una violenza iniziale o una forzatura è stata lavata dai secoli e secoli: la Francia è la Francia e la sua grandeur, in questo senso, è pienamente giustificata.
Noi abbiamo poco più di 150 anni di vita come nazione; siamo presuntuosi, è vero, ma in fondo solo degli imberbi e impreparati uomini d’istituzione, e per di più con ancora caldo il sentimento delle violenze subite nel processo di unificazione. Che cosa possiamo pretendere?
Ma soprattutto, sulla nostra psicologia ha influito la miriade d’invasioni avvenute sullo scacchiere del Mediterraneo e pesantemente sul nostro stivale. In un popolo che non ha un centro, un’identità di nazione, ma è frammentato, diviso dalla storia, dalla lingua, dalle tradizioni e dalla latitudine stessa, il fenomeno naturale, consequenziale alle invasioni, è lo sviluppo della psicologia del vinto, dello schiavo (e non certo dell’orgoglio nazionale, come vogliono farci credere parlando del sopravvalutato Risorgimento). L’unità d’Italia ha consolidato e sigillato la formazione di un sistema di adattamento al potente di turno, è storia.
Lo schiavo agisce in maniera opportunistica, infatti, non si espone, non alza la testa, non discute ma mugugna, sfugge alle responsabilità ma applica estesamente il servilismo, crea una rete di complicità e aiuti minimi tra gli schiavi stessi, ma non si ribella.
Stendhal, in visita in Italia come tutti gli artisti francesi e inglesi dell’800, diceva: “Quale misero gregge si raduna in questo tempio! Non sono persone come queste che hanno potuto edificare questa chiesa. Questa considerazione applicatela a tutto ciò che di sublime vedete in Italia, e in tutte le attività pubbliche. Un popolo di giganti e di eroi è morto ed è stato rimpiazzato da un popolo di pigmei.”
La patologia non si ferma ai comportamenti spiccioli quotidiani, ma attacca la capacità di analisi e provoca un blocco psicologico che si allarga a dismisura. Lo schiavo inizia nel tempo a difendere lo schiavista e i suoi interessi (c’è una bibliografia immensa su questi temi, pensate solo alla sindrome di Stoccolma), diventa parte di un sistema non più paritetico ma bipolare: da una parte un’oligarchia privilegiata, dall’altra un popolo disagiato che la difende, la venera, la esalta come per atto di fede, senza distinguere più il proprio vero interesse.
Pensiamo all’esaltazione cieca, fideistica, verso i nostri Presidenti della Repubblica, quasi che un parlamentare, occupando quello scanno, diventi istantaneamente un re, un intoccabile, un profeta. O gli stessi sentimenti espressi verso chi ci trascina in guerra, o dilapida settantamila miliardi di lire in una notte di follie, o ci trascina nell’euro falsificando i conti e firmando cambiali che neanche i nostri figli potranno pagare. L’atteggiamento popolare non nasce a caso.
Pensiamo alla difesa a oltranza delle ideologie, indipendentemente dai danni che esse hanno provocato: l’idea che conta al di sopra dei fatti, dell’interesse o della vita dei cittadini, del nostro stesso interesse. “Comunismo era un mondo fantastico, non era solo Stalin e la sua cricca di degenerati, non erano solo i fatti di Ungheria e il raccapricciante cinismo di Togliatti che in una tribuna politica aveva considerato giusta e ben data l’impiccagione di Imre Nagy, il primo ministro ungherese che aveva guidato la rivolta contro il colonialismo sovietico. E non era neppure l’invasione della Cecoslovacchia; neppure tutto quello sferragliare di carri armati per le strade di una Praga incredula e delusa. Quelli erano i guasti, è questo che vorrei farti capire, erano i guasti provocati dalle persone” — da Vicolo Rosso, di Augusto Secchi.
Pensiamo alla nostra credulità verso la stampa e la televisione, verso la storia ufficiale, verso i proclami del leader di turno.
Riflettiamo sul concetto di servizio, in pratica inesistente in Italia, perché, durante le invasioni, essere al servizio dell’invasore era un grande rischio. Meglio essere servi, nell’ombra, e non prendere posizione, non allargarsi, non fare. Gravi mancanze della nostra amministrazione pubblica, ad esempio, derivano da questa patologia.
La Sardegna, eccoci a noi, ha subito quasi 150 anni in più di stretto e brutale colonialismo (Colonialism, Oxford Dictionary: the policy or practice of acquiring full or partial political control over another country, occupying it with settlers, and exploiting it economically), dal 1720 circa al 1861, e questo fatto (oltre alla già citata psicologia dello schiavo) ha prodotto guasti terribili in termini imprenditoriali e identitari. La sfida e il rischio non sono propri di una classe di asserviti, di assistiti, e la spirale negativa si perpetua all’infinito: sempre meno imprenditori (in senso lato), sempre più impiegati/pensionati legati al carro dello stato, sempre meno possibilità di cambiare.
In termini identitari, il colonialismo prima e le ideologie dopo ci hanno allontanato da quello spirito comunitario che contraddistingueva il nostro interno e che ancora oggi, testardamente, affiora qua e là. Mentre i napoletani, ad esempio, sono rimasti fortemente orgogliosi del loro essere napoletani anche al cambiare del regno dai Borboni ai Savoia, noi sardi ci siamo via via trovati privi di riferimenti identitari e siamo diventati i critici più critici verso noi stessi: ci è mancato l’ancoraggio storico, perché in 150 anni i Savoia l’hanno cancellato e nei seguenti 150 anni le ideologie l’hanno nascosto e confuso, nonostante la nostra civiltà sia vecchia di millenni.
Un’ultima domanda ci riguarda: “Quando, nella storia dell’uomo, un popolo ha accettato condizioni fiscali, giudiziarie e sociali così deprimenti, senza mai ribellarsi? Quando, nella storia dell’uomo, un popolo è stato tanto vigliacco verso se stesso da subire uno stato come il nostro senza fare alcunché? Mai. È allora evidente che il popolo non è il burattino che fa ciò che dice il leader di turno: il popolo e l’atteggiamento popolare sono il frutto d’influenze culturali in grado di determinarne l’essenza (*)”
E determinarne l’assenza, aggiungo io.
Ciriaco Offeddu
ciriacoffeddu.com
(*) L’Inkiesta — 4 Agosto 2013.