Lasciatemi esprimere il sentimento che mi ha accompagnato in questi giorni a Hong Kong e Singapore: la sensazione che ormai l’Italia sta smontando le proprie bancarelle (ovvero, sta sbaraccando) e sta abbandonando alla propria sorte decine di espatriati che abbisognano invece di un supporto forte, di una nazione alle spalle. Ci si sta avviando verso un futuro triste di emigrazione ancor meno assistita e dunque più problematica e difficile. Non che il supporto dello stato italiano si sia fatto sentire come dovevasi e potevasi, nel recente come nel lontano passato, no, ma ora che la nostra crisi rimbalza in Asia con impatti inquietanti e con sinistri scricchiolii, ecco che siamo di nuovo l’esercito di Masaniello, o meglio di Brancaleone.
Ogni giorno trascorso qui è stato purtroppo contraddistinto da un bollettino di guerra: quello è stato licenziato ieri; quell’altro non c’è più sin da Agosto; questi partiranno a fine Dicembre; questi altri, una lunga lista, stanno disperatamente cercando lavoro perché le loro aziende hanno chiuso le filiali (oppure hanno assunto personale locale meno costoso, oppure si sono concentrate, ecc.). Quelli che sopravvivono bene sono essenzialmente gli imprenditori, quelli che hanno avviato un’attività in proprio o in partnership, e quelli che lavorano per aziende non italiane. I miei rilievi non fanno statistica, ovviamente, e sono basati sull’osservazione di quanto in atto nella cerchia di contatti che ho maturato, ma sono indicativi di un clima che sta acuendosi mese dopo mese. Così com’sono ben evidenti, al contrario, un maggior afflusso di francesi e una maggiore loro penetrazione negli scaffali dei supermercati.
Anche qui prendete il mio commento come il risultato di un semplice carotaggio e non di una professionale analisi di mercato, ma il ripercorrere i luoghi soliti di spesa e accorgersi di una quasi evaporazione dei prodotti italiani, nel volgere di tre successivi viaggi nel corso di un anno, questo non mi era mai capitato. E’ pleonastico dire che l’esportazione ha bisogno non solo di un potente brand nazionale alle spalle, ma di un supporto pratico quotidiano, e di una legittimazione istituzionale che in questo momento, semplicemente, non abbiamo.
Ho letto da poco un superficiale articolo sul Made in Italy, impregnato di frasi fatte e concetti e idee riportate che sono speranze e non realtà. Il Made in Italy è ancora un brand potente, è vero, ma sempre più polveroso, limitato a poche cose in offerta, non sostenuto minimamente all’estero, un marchio più ispirazionale che concreto. Tant’è che il sentimento di chi si avvicina a esso è di negativa sorpresa: avete un tale marchio e non fate nulla per sostenerlo, per valorizzarlo!
Diverso è l’atteggiamento dei francesi, degli svizzeri, dei tedeschi e degli spagnoli. I prodotti tedeschi e svizzeri si vendono perché c’è una meritata reputazione alle spalle, difesa ogni giorno; i prodotti francesi si vendono perché, oltre alla reputazione, esiste un’eccezionale distribuzione creata e sviluppata capillarmente in decenni d’investimenti all’estero (che continuano e anzi si stanno incrementando anche oggi). I francesi hanno capito che non basta la qualità intrinseca del prodotto (dico cose ovvie, lo so, perdonatemi), ma occorrono il marketing, la logistica, la distribuzione, la legittimazione e la presenza alle spalle di uno stato che ci creda. Un solo esempio: per il prossimo French May, il Maggio Francese che raccoglie le loro più importanti manifestazioni all’estero, sembra siano in arrivo un centinaio di quadri dal Louvre, per essere esposti a Hong Kong. I risultati di questa grandeur non a parole ma sul campo si vedono. A Hong Kong sono presenti circa tremila italiani, di cui solo settecento hanno un permesso di lavoro (questi dati sono stati pubblicati nel quotidiano locale e indicano il peso un po’ anomalo, invero, delle famiglie alle spalle). I francesi hanno superato le trentamila unità. Stesse proporzioni si ritrovano a Singapore.
Mi devo dunque sorprendere se nel brunch domenicale a buffet ho contato 72 diversi tipi di formaggio francese e solo 4 tipi di formaggio italiano (peraltro abbastanza sconosciuto, vedi la prima foto)? E ho trovato solo un vino bianco italiano, un Pinot Grigio friulano, in una lista lunga tre pagine? Mi devo sorprendere di non trovare al supermercato che sconosciute bottiglie di Chianti e – udite, udite – il nostro magico Tavernello che è sbarcato nel frattempo in Asia in bottiglia (vedasi la foto qui a lato)? Ogni strategia è degna quando è di successo, e dunque onore e gloria al Tavernello se riesce a esportare e vendere in Asia (lo dico anche con ammirazione), ma che tristezza, che amarezza profonda! E’ questo il nostro rinomato Made in Italy?
Oppure è quello declinato da egiziani, libanesi e altri, ad esempio con KuCina (vedasi la terza foto, notate la firma)?
L’Asia appare come un treno di opportunità che siamo riusciti a perdere come decine di altri precedentemente. Un gigantesco treno che avrebbe potuto soffiare sulle nostre sgangherate vele, gonfiandole come mai. Ci stiamo guardando in faccia, invece, e altro non riusciamo a fare che buttare tutto in politica: gli embedded continuano a dire che tutto va bene, che le cose migliorano; chi lavora si accontenta; chi soffre (il numero di famiglie aumenta ogni giorno) incolpa il destino, la sfortuna, il cattivo management, la Cina, eccetera.
Quando inizieremo a parlare di capacità e di merito, al di là degli schemi politici, di un sistema stagnante che ormai ha mostrato tutta la sua fragilità e pericolosità?
Io sto viaggiando da Hong a Londra, di ritorno verso la Sardegna. Volevo comprare una bottiglia di Tavernello, ma poi ci ho ripensato. Non mi sembrava serio.
Ciriaco Offeddu
ciriacoffeddu.com