Rileggo I Racconti della Kolyma di Varlam Salamov e, come ogni capolavoro, il libro mi sommerge di pensieri. E’ scritto con un tono spassionato e uno stile appena un po’ più ricercato di un buon resoconto giornalistico, che creano, una pagina dopo l’altra, un’opera di pura, assoluta letteratura. Salamov racconta, attraverso la vita del gulag, la barbarie della storia sino all’annichilimento umano, la rivoluzione e lo schiacciamento delle singole esistenze. Nello sfondo c’è la tragica, immane battaglia persa per un utopistico rinnovamento della società, piegata a ragioni comunque egoistiche ed economiche. Come ha scritto Michail Geller presentandone la prima edizione in Occidente, nel 1978, la Kolyma “era un’industria sovietica, una fabbrica che dava al paese oro, carbone, stagno, uranio, nutrendo la terra di cadaveri. La più gigantesca impresa schiavista della storia”. Ricordando tutto questo, Salamov si batte comunque contro ogni forma di letterarietà: “C’è una profondissima non verità nel fatto che il dolore umano divenga oggetto dell’arte, che il sangue vivo, il tormento, il dolore appaiano sotto forma di quadro, poesia, romanzo. Questo è un falso, sempre,” afferma Salamov in un’intervista degli anni Settanta. “Ancora più falso è che scrivere significhi per l’artista allontanarsi dal dolore, alleviare il proprio dolore, dentro. Anche questo è sbagliato.”
E’ sbagliato, certo, ma l’alta letteratura nasce spesso da un trauma esterno che si riverbera profondamente all’interno di un animo sensibile e tormentato – gli esempi sono molteplici anche nella stessa Russia, da Dostoevskij a Bulgakov, a Solzenicyn, a Grossman e Pasternak.
Ma per approfondire I Racconti della Kolyma, ho bisogno di partire da lontano, dalla sola barriera che può impedire una proficua seppur dolorosa lettura di questo capolavoro: l’ideologia.
E il primo pensiero è che sia un peccato che in Italia domini ancora l’ideologia, così profondamente. Ma in un paese di burro, tenuto insieme con l’antico collante della malintesa visione savoiarda, l’ideologia – che non è poi altro che un’interpretazione dell’istituzione che s’intende conquistare per esercitare il proprio potere sugli altri – è la cosa che meno richiede impegno, scuola, fatica: è la strada di minor resistenza. Abituarsi a non avere idee e seguirne una precisa, piovuta dall’alto e ormai cristallizzata come neve, è una grande comodità. Anche se non si combatte più per essa, ci mancherebbe. Oggi l’ideologia è usata, verbalmente, sottilmente, per raggiungere una ‘vita buona’ in un mondo deteriorato, per assicurarsi la sopravvivenza. Il che significa la protezione e l’autorevolezza dell’appartenenza, le cento scorciatoie possibili che distinguono il privilegiato dalla massa, il potere di accedere a circoli che contano, comunicano e incidono, infine la difesa garantita dei propri interessi.
Si rinuncia a essere ‘corpo politico’, in altre parole un organismo che si mette in relazione con gli altri e che facendosi carico dei bisogni del prossimo, soprattutto dei più deboli, fornisce una dimensione morale alla propria azione e ai propri comportamenti; si sfugge a questa spinta etica, o filosofica, o religiosa – dipende dalle personali prospettive – per esser solamente parte di un ‘corpo biologico’ mosso solo dal desiderio di ‘vita buona’, di privilegio, di sopravvivenza biologica (e quindi economica, ovvio).
Questo potente movimento è un cuneo disgregatore. I partiti diventano centri di affari e sempre più intrecciano la loro esistenza con la finanza – e non c’è niente di più cieco, aggressivo e immorale della finanza. Le nazioni arrivano a un inaspettato capolinea, dimostrando di essere nude, senza più utilità storica. Le democrazie si prostituiscono, si ammorbidiscono e si rigenerano, come novelle teste dell’Idra di Lerna, per assecondare in primis il proprio desiderio di sopravvivenza. Al fondo di tutto, la popolazione, le persone, i singoli diventano solo folla indistinta e omologata, incapace di ricostruire dal risentimento una nuova comunità.
Per inciso, gli stessi intellettuali organici hanno rinunciato in Italia a essere i soldatini togliattiani ‘ingegneri di anime’: la finanza li ha esautorati e anch’essi sono diventati marginali. Danno una patina di cultura e di distacco, è vero, sempre di moda, ma sono usati ormai come bandierine nelle battaglie (verbali) di retroguardia e camuffamento, niente più – vedasi anche il panorama nuorese. La loro ‘immersione nella massa’ non arriva mai all’amore per la stessa, ma è spinta dal desiderio elitario di supremazia, di colonizzazione e infine ricerca di possibili nuovi serbatoi di consenso. Di fatto, questi intellettuali dimostrano, ce ne fosse ancora bisogno, la pericolosità delle élite slegate dalla realtà, sradicate e prive di lealtà verso le proprie radici.
E non è un caso che siamo arrivati al più basso livello nella storia dell’arte: ormai tutto in Italia, dalla letteratura al teatro, al cinema, alla pittura e quant’altro è ripetizione, rivisitazione, piattezza senza passione e innovazione, provincialismo. La cultura diffusa, piegata, calpestata, si è spezzata lasciando solo campi di stoppie.
Eppure l’ideologia domina – dicevo all’inizio – e, in un mondo in cui più del 50% della ricchezza globale è in mano a meno dell’uno per cento degli individui, idealizza modelli perversi. Non sfama il pianeta (e neanche l’Italia), ma serve per costruirsi un avversario e dar rilievo a un’identità; si ha bisogno di una causa legale che mai finisca – diceva Salvatore Satta – per sentirsi vivi, immortali. Se la causa finisce, cosa rimane infine? Se le ideologie dovessero crollare in Italia come il muro di Berlino, come sono e stanno crollando ormai nella maggioranza dei paesi, cosa resterebbe di tutta una pletora di persone che si è nutrita solo di queste (delle ideologie novecentesche come quelle emergenti del ‘mercatismo sicut Deus’, della finanza, della globalizzazione senza se e senza ma), e che di queste ha fatto una carriera, un’identità, un lavoro? Come si spiega che non c’è stata una sollevazione mediatica per i quattromila lavoratori di Taranto in pericolo (cito questi, ma potrei parlare di Ottana, Porto Torres, Prato Sardo, ecc.) se non col fatto che i seguaci dell’ideologia, i professionisti dell’antiqualcosa che Sciascia tanto aborriva, si sono trasferiti in massa dal sociale alla finanza (propria), armi e bagagli?
Tornando finalmente ai I Racconti della Kolyma, Einaudi per prima ha rifiutato le introduzioni del polacco Gustav Herling e di Vittorio Strada al capolavoro di Salamov. Perché vi è fatto un paragone tra i gulag e lager, mettendoli infine sullo stesso piano: inammissibile per Einaudi. “Eppure, chiunque abbia letto i racconti di Salamov confermerebbe l’esattezza del paragone,” nota l’insospettabile Strada. E scrive Herling: “Nei campi sovietici non c’erano i forni crematori, non si mandava la gente nelle camere a gas: il risultato era però il medesimo, anche se si uccideva lentamente, attraverso la fame, il lavoro massacrante e il clima”. Cambiava l’obiettivo: in Siberia, “si voleva sfruttare al massimo il lavoro dei prigionieri”.
I Racconti della Kolyma, un caso letterario mondiale, andrebbe riletto con rispetto e con attenzione semplicemente umana, non ideologica. Ci sono squarci abissali sull’abbrutimento, la depravazione e l’abiezione, e visioni angeliche di pietà, solidarietà, coraggio, e infine un trascendente senso religioso che spiega, secondo me, l’ironia che ogni tanto fa capolino e che fa da contrappeso alla disperazione, al fondo scuro. “La cosa peggiore – afferma Salamov nei diari – è quando l’uomo comincia a sentire questo fondo oscuro come parte della propria vita, e per sempre.” Cosa poteva resistere nei gulag? Per l’ateo, per il bolscevico Salamov, soltanto Dio: “Nei campi di concentramento non ho visto nessuno che avesse più dignità dei credenti. La depravazione invadeva l’anima di tutti; resistevano solo i credenti,” dice. Anche lui resistette. Perché, come spiega in un’altra intervista, “Cristo veniva proprio da laggiù, dal profondo della storia, ed era la realtà più familiare e naturale, anche nei gulag della Kolyma.”
Ciriaco Offeddu
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