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Clik here to view.La piaga sarda dei Gratta e Vinci – Un giorno in una tabaccheria a Nuoro – 6 dicembre 2016
Entro di corsa in un tabacchino di via Manzoni per acquistare un ticket per il parcheggio e mi arresto: davanti a me c’è una piccola folla di donne in fila per comprare gratta e vinci. La spesa viene fatta con grande cura (la scelta tra i prodotti, mi accorgo, è vastissima) e per importi totali che sconcertano: 18, 20, 36 e persino 54 euro per ciascuna. Le guardo, sembrano tutte casalinghe, da molto giovani ad anziane. Qualcuna trascina il figlio. “Lasciamo aperta la porta,” diceva mio padre quando, una volta l’anno, comprava un biglietto della lotteria nazionale, la cui estrazione avveniva il giorno dell’Epifania. Il biglietto troneggiava in cucina per settimane e la befana se lo portava via con un ghigno. L’anno scorso, invece, gli italiani hanno perso al gioco d’azzardo 18 miliardi di euro (somma triplicata rispetto a dieci anni fa) e lo stato ne ha raccolto di tasse circa la metà, 9 miliardi di euro, il tanto di una pesantissima manovra finanziaria. Si calcola però che il gioco d’azzardo illegale superi del 50% circa l’importo di quello ufficiale, per cui occorre immaginare una perdita complessiva di circa 40 miliardi di euro, subita per lo più da fasce deboli o scarsamente abbienti. Una strana conseguenza, tipicamente italiana: lo stato italiano è, di fatto, il più grosso dipendente dal gioco (ne ha disperatamente bisogno per sopravvivere – ecco perché non solo non lo combatte, ma anzi lo pubblicizza e lo spinge) e allo stesso tempo il cacciatore spietato del gioco illegale, verso il quale ostenta un atteggiamento moralista. Rovinarsi comprando gratta e vinci o giocando alle macchinette va bene; con le scommesse illegali diventa invece un atto incivile e riprovevole. Un’altra sotto-conseguenza è che lo stato, artefice di un massacro crescente ai danni dei deboli, diventa inevitabilmente complice dei “produttori di sogni”, necessari per incrementare la diffusione del vizio. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà, memori di sigarette e alcol, se non fosse per un impatto sociale di un ordine di grandezza superiore: 18 miliardi di euro di niente e di delusione vanno a incrementare la rabbia e l’indigenza di chi ormai non ha più speranze. Quanto potrà durare?
La lezione di Pavese e l’identità sarda – Tradizioni fragili e radici vere – 29 novembre 2016
Volevo rileggere Moby Dick, il romanzo di Herman Melville pubblicato nel 1851, e il famoso incipit, sapete: “Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra…”. Ma ancor prima di reimmergermi nel capolavoro (un vero e proprio poema sacro, concordo), sono inciampato sulla prefazione di Cesare Pavese, che l’aveva tradotto dall’inglese, e una sua frase mi ha colpito: “Poiché avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla,” riferita al desiderio americano di una cultura propria, appunto di una tradizione. E’ Cesare Pavese che parla, e la profonda asserzione mi ha fatto immediatamente pensare alla nostra testa spasmodicamente rivolta al passato, non alla ricerca, ma alla statica difesa di una presunta tradizione cui in fondo ci siamo solo adattati. Se si giudica sulla base dei media, la tradizione italiana appare oggi Pippo Baudo, che ancora conduce, Costanzo e un pugno di tenaci ottantenni (Armani, ecc.). Questi rappresentano il passato che sappiamo maneggiare e discutere; il resto, per lo più nebbioso – e oscuro oltre il Manzoni – è difficile asserire che sia cultura. Ancora poco e persino Gianni Morandi sarà parte della nostra tradizione, vedrete. Se guardiamo alla Sardegna, arriviamo a idealizzare solo la fine dell’800 (cui datano i nostri cori e le nostre canzoni, ad esempio), simboli fallaci come i fiori nei costumi (frutto delle riviste del primo dopoguerra) e – mai manchino – le feste paesane cui tutto tende a ridursi, come se queste ultime non caratterizzassero le popolazioni povere, indifferentemente. La risultante è una tradizione non millenaria ma da post colonialismo, fragile, più folcloristica che di sostanza. Nessuno tenta, infatti, di ricostruire la nostra identità, sviluppatasi non come succubi degli invasori ma come artefici di una passata grandissima civiltà, nessuno investe come dovuto sull’archeologia (vedasi come trattiamo monte Prama, i nuraghi o le tombe dei Giganti), nessuno conosce la nostra storia, Bonifacio VIII, le campagne militari dei piemontesi, il loro Corpo Franco, ecc. Insegniamo ai nostri figli una lingua sarda modernizzata e ci sentiamo coerenti con le nostre radici. In realtà la nostra ricerca non è mai iniziata e “avere questa tradizione è meno che nulla”.
Non dare le colpe solo ai politici – A proposito di Sardegna – 15 novembre 2016
In un racconto breve, Zombie, del dissacrante Chuck Palahniuk, si diffonde tra i giovani una forma di suicidio-non-suicidio consistente nell’applicarsi un defibrillatore alle tempie e schiacciare il pulsante rosso. Il risultato è una lobotomia, e dunque il salto indietro a una vita quasi vegetativa. Come dice Palahniuk, tra l’essere e il non essere esiste una vasta zona grigia di de-evoluzione. E’ proprio lì che si rifugiano quanti vogliono sfuggire ai problemi di tutta una vita, al college e al matrimonio, al pagamento delle tasse, all’impresa di crescere un figlio, all’insipienza dell’esistenza, ecc. Il pulsante rosso diventa il biglietto per un futuro meravigliosamente felice di categoria protetta, di diversamente abili, l’opposto di una vita infelice come dirigente o architetto, chirurgo o altro. Non avere preoccupazioni né rimpianti è una condizione allettante. Lascio a voi la fine del racconto e rifletto sul fatto che l’autore vive a Pascoe, nello stato di Washington, dove forse la tecnologia ha ancora un valore salvifico – ecco perché è indotto a pensare ai defibrillatori. Vieni in Sardegna, Chuck, dico io, e ottieni gli stessi risultati senza dover passare la vita con la bava alla bocca e il pannolone! Da noi, la rimozione è garantita, credimi, connaturata direi, e passare sopra alle preoccupazioni e alle ingiustizie senza ribellarsi e, soprattutto, senza ricercare i colpevoli (e premiare i meritevoli) è la condizione naturale. Qui siamo tutti diversamente abili, diversamente sottoccupati, precari a vita, non coscienti. Non abbiamo rinunciato all’esteriorità e al superfluo, ma abbiamo steso tanti veli sui crimini di una classe politico-dirigenziale che continua a calcare il pulsante rosso con maligna perseveranza, che anche le poche urla di dolore (per la servitù, la disoccupazione, l’amianto, le pecore nere, il cancro, ecc.) ne vengono totalmente assorbite. Sulla Rinascita Interrotta, Anthony Muroni dice ad esempio il 3 Novembre che “sarebbe ingeneroso sentenziare ex post che la fallimentare industrializzazione della Sardegna e il boicottaggio, di fatto, delle tante buone idee del Secondo Piano a proposito del comparto agricolo equivalga a una bocciatura di quella classe politica.” Sono d’accordo solo su una cosa: la bocciatura è la nostra, i politici sono tanto marci e dannosi quanto noi gli permettiamo di esserlo. Per il resto, possiamo fare a meno dei defibrillatori, noi sardi, e risparmiare sulla carica.
Andare oltre le celebrazioni – Nuoro, la Deledda e il futuro – 1 novembre 2016
Adesso che le facili polemiche si sono posate sul terreno come la polvere, ora possiamo affrontare il tema del lascito delle celebrazioni deleddiane. Perché qualcosa dovrebbe rimanere di tutto questo vortice di eventi e parole. Perché, auspicando che i soldi vadano spesi in investimenti per il futuro e non in riconoscimenti al merito o in feste autocentrate, ci si aspetta la ‘posa della prima pietra’ di quella strategia turistico-culturale capace di dare da mangiare a Nuoro nei prossimi anni. Tutti lo paventano (intendo: che il fluire dei finanziamenti continui a scemare con triste accelerazione, e che a un certo punto noi si sia chiamati a far da soli, essendosi interrotto l’ossigeno), eppure iniziare a scrollarsi di dosso decenni di assistenzialismo per prospettare una strategia autoprodotta e di per sé profittevole appare irreale, una strana fantasia. Anche il semplice pagamento di un biglietto d’ingresso ai musei incontra ideologiche contrarietà e qualcuno suggerisce di accontentarsi di un obolo volontario (far pagare i visitatori non fa fino quanto chiedere soldi a Cagliari). Giacché non sono stati comunicati né un percorso su cui interrogarsi, né un formato che chiarisca i sacrifici da compiere ma anche uno spazio concreto di ottimismo, né ancora un modello di sviluppo, quello che aspettano quanti lavorano invano per creare un sistema territoriale, io – ingenuamente – chiedo all’Amministrazione Comunale di indire una riunione pubblica per discutere coram populo la strategia per i prossimi anni. Non possiamo accontentarci di una statua senza nome (a Nuoro le opere sono costrette a declinarsi da sole, e anche le indicazioni per raggiungere il Monte e il Redentore sono superflue), posta nel posto sbagliato; di qualche evento frequentato, come si dice, da quarantotto amici nuoresi e due di Oliena; di un positivo fermento culturale che però non raggiunge i destinatari che porterebbero reddito e opportunità. Le celebrazioni sono finite: affrontiamo con trasparenza la realtà per uscire da questo stato sedativo, formiamo un consenso cittadino sulla strategia e recuperiamo il nostro profondo spirito comunitario. Adesso, non domani.
Vivere di cultura, l’esempio di Galtellì – Grazie alla Deledda e non solo – 25 ottobre 2016
Così siamo di nuovo in viaggio verso Galte, io, Gavino e Pasquale, tre briganti e tre somari nella strada tra Girgenti e Monreale, come diceva una canzone di tanto tempo fa. Frastornati da convinzioni e lamentele più veloci delle curve di Marreri, illuminati da idee capaci di cambiare il mondo (se non altro quello culturale), ma infine solo tre briganti che scendono a valle per trovare la soddisfazione del bello, dell’arte partecipata, della discussione internazionale. E la correntezza dell’ospitalità, e anche il sapore di quelle pagine di Canne al Vento che hanno cementato la nostra identità. Come aspiranti artisti (solo gli imbecilli credono di esserlo, gli altri si struggono per diventarlo), noi siamo tutti figli di questa Grazia Deledda che abbiamo coltivato di nascosto, nell’indifferenza generale, portandola anche all’estero, dov’è apprezzata. Ora che Nuoro solleva polveroni di quartiere più scenografici che di sostanza, sentiamo il bisogno di scendere a valle per fare un bagno di umiltà e sentir parlare gli esperti, dibattere di arte e internazionalizzazione, riscoprire quanto Grazia Deledda sia un’autrice globale, tradotta in decine di lingue ed essa stessa traduttrice. Margherita Heyer Caput, straordinaria studiosa, Stefan Damian, Neria de Giovanni e Antonello Zanda guidano professionalmente il percorso. E’ insieme rigenerante conoscere i risultati del modello di sviluppo che Galtellì ha perseguito dagli anni 90. Un paese di 2.500 abitanti, non affacciato sul mare, lontano dalle direttrici dei collegamenti, riesce a declinare perfettamente l’obiettivo turismo culturale = economia e benessere (o meglio, cultura = pane) che dovrebbe essere patrimonio di tutta la Sardegna e la strategia da sposare per il nostro futuro. Quest’anno, solo nei mesi estivi, la Galte delle dame Pintor e del fedele Efix ha avuto più di dieci mila turisti che hanno pernottato in paese almeno una notte, provenienti da decine di nazioni europee e non. E la stagione si dilata verso i mesi primaverili e autunnali. Un volano economico che cresce, permette miglioramenti continui e premia la popolazione e un’amministrazione coerente e determinata. Esiste un esempio positivo: basterebbe dunque copiarlo e farlo proprio. Ma a notte fonda, lasciando la valle per il bivio di Nuoro, lo scoramento ritorna: il sattiano Luogo del Giudizio incombe, i briganti chinano la testa.
La Sardegna deve volersi più bene – No alla rassegnazione – 13 ottobre 2016
A Hong Kong preferisco seguire la messa dei filippini, più spontanea e colorata. Quella degli italiani riserva purtroppo rare emozioni, è generalmente istituzionale e ingessata come la nostra fede. Tuttavia, lo scorso anno, un prete canadese figlio di campani – si esprimeva in puro napoletano, infatti, non in italiano – ha sorpreso il rado drappello di coppie di espatriati italici, figli annoiati e suore, deviando dal settimanale commento del Vangelo per parlarci di Søren Kierkegaard e del suo concetto di amore. Immediatamente lo sconcerto e l’attenzione hanno raggiunto un picco insolito: il sacerdote confrontava l’amore istintivo, passionale, quello che nasce spontaneo e misterioso verso un’altra persona (e vi assicuro che le descrizioni in napoletano rendevano succosamente l’idea) con l’amore cui noi stessi ci forziamo – o, almeno, dovremmo costringerci – verso il nostro prossimo. Un sentimento razionale, ragionato e voluto. Beh, nella campata della chiesa non si avvertivano né predisposizioni né un prepotente impeto verso il prossimo (etiam mea culpa), e sono uscito frastornato dai pensieri. Perché quando confronto la nostra identità, il nostro spirito vitale con quelli di altri popoli e culture, la nostra energia e la capacità di interessarci agli altri – quindi anche al bene comune, che Kierkegaard teorizza e auspica – appaiono paralizzate o inesistenti. Venendo ai sardi, noi all’estero trabocchiamo di amore struggente e di disperata nostalgia. Tornati a casa sia pure solo per vacanza, è generale lo straniamento di fronte alla crisi di sfiducia che si respira, all’apatia che sfocia in cupa rassegnazione, a una sorta di sfibramento psicologico che impedisce l’amore e la cura della cosa pubblica. La Sardegna non ha idea di che cosa esista a fare, e pare solo sopravvivere senza sapere da dove viene e dove va, senza volersi bene. E la consapevolezza che questa politica sia incapace di avere visioni, di incidere e mobilitare risorse, di cambiare, è dirompente. Siamo fermi, rigidi, piegati dagli eventi. Solo il ritorno a uno spirito comunitario – che noi sardi, al contrario di altri, possedevamo, e che esprimeva un’energia potente verso il prossimo – e all’orgoglio della nostra storia, se riletta, potrà consentire di ricreare un’idea di Sardegna, con una vocazione e un destino. Un’idea senza la quale, rendiamoci conto, non riusciremo a riprenderci, a ricominciare.
I Musei di Nuoro sempre in perdita – Misteri della cultura – 29 settembre 2016
L’ICOM, the International Council of Museums, che coordina le attività museali in tutto il mondo, definisce il Museo come ‘un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che ha come obiettivo l’acquisizione, la conservazione, la ricerca, la comunicazione e l’esposizione per scopi di studio, di educazione e di diletto, delle testimonianze materiali dell’umanità e dell’ambiente’. Aggiunge che ‘le attività museali non devono seguire la logica del profitto di mercato, e le proprie entrate devono essere sempre finalizzate alle attività istituzionali perseguite dal museo’. Poiché ‘il Museo è al servizio della società’, anche le spese devono essere rigorosamente finalizzate alle attività istituzionali perseguite dal museo stesso. Specificatamente ‘un Museo deve sempre diffondere la conoscenza del patrimonio posseduto, attraverso tutti gli opportuni strumenti di comunicazione scientifica e di massa’. Illuminato dalle note del professor Francesco Morante dell’ICOM, m’immergo nel sito dell’ISRE, Istituto Superiore Regionale Etnografico, per apprendere che l’Ente porta avanti la propria missione istituzionale (quale? non l’ho trovata) attraverso un’articolata serie di compiti e attività tra cui la gestione e cura del Museo Etnografico di Nuoro e del Museo-casa di Grazia Deledda. Dalla Relazione sull’attività dell’Istituto nell’anno 2015 si evince che a fronte di costi pari a oltre 3,1 milioni di euro, il totale ricavi del 2015 è di euro 9.910! (vendita biglietti 993 euro! pubblicazioni 6.000; utilizzo auditorium 2.917). Gli incassi annuali, che definire miseri appare poetico, hanno subito una flessione del 39% circa, nonostante l’aumento dichiarato di visitatori che toccano le 58mila unità – tutti senza biglietto? Tra i costi spiccano 284mila euro per emolumenti degli organi sociali (consiglieri e sindaci), 1.307 milioni per salari e stipendi, 439mila oneri sociali, 522mila per servizi di vigilanza, ecc. L’87% dei costi riguarda organi societari, direzione e personale vario, le briciole coprono le spese generali. Mi chiedo: com’è possibile, nell’ottica di un Museo permanente, che i ricavi siano lo 0,3% dei costi, e in diminuzione? Quali sono le strategie di sviluppo e con quali mezzi saranno attuate? Per quanto tempo può essere sostenibile a Nuoro un Museo i cui ricavi non diano ossigeno almeno alla ricerca e alla comunicazione/marketing?
Quel monolite che ci schiaccia – Sardi: letteratura e realtà – 20 settembre 2016
In pieno terrore staliniano, Bulgakov scrive e riscrive il suo capolavoro ‘Il Maestro e Margherita’. In una società dove ciò che non è supinamente allineato non esiste (così come lo stesso io, che non si può ingabbiare, non ha diritto di esistenza) ecco irrompere la fantasia quale luce di possibilità e speranza. Bulgakov disegna un mondo fantastico ma non irreale (usa a piene mani Hegel: “Ciò che è reale è razionale”) ed educa alla categoria del possibile e dunque del disallineato, del singolo, dell’io. La veridicità della storia raccontata dalle autorità si disgrega di fronte a Satana che scatena fatti e personaggi in un racconto composito che mette in ridicolo l’uomo nuovo del progresso comunista. Fatte le debite proporzioni, eppure nel mondo attuale a una dimensione, dove la storia raccontata dalle istituzioni sostituisce la situazione reale del paese, stupisce in Sardegna la mancanza di una letteratura di fantasia. Di un autore che sappia aprirsi alle altre dimensioni e scardinare le mura del vivere senza speranze. La letteratura sarda, invece, ripercorre stancamente le strade del passato quasi a cercare quanto è stato perso, e analoga operazione viene quotidianamente svolta dai musei (centri solo di conservazione) e giù sino alle feste paesane. Nessun autore supera il monolite che ci schiaccia e introduce la prospettiva del possibile, sì, capace di evidenziare le contraddizioni da cui siamo circondati (in primis quella di vivere poveri in un paese ricchissimo). L’arte è anche rivoluzione, ma gli scrittori in scaffale sembrano appartenere alla categoria degli allineati cronici, dei ricattati, e la sola psicologia dello schiavo (che peraltro permea tutto lo stivale) non spiega l’insieme del fenomeno. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, vede un bozzolo che ci imprigiona, una rete fatta di masochismo celato dietro la maschera dell’esibizionismo, di individualismo spietato, di provvidenzialismo (fede nel miracolo) e infine di recita. C’è una patologia, dunque, e la recita (“noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto”) mina non solo la nostra identità, ma purtroppo la capacità di azione, di scollamento. A ciò dovrebbero sopperire l’arte e soprattutto la letteratura. Il fatto che questo non accada è un sintomo gravissimo: vuol dire che negli scaffali c’è qualcos’altro, ma non arte.
I vini sardi senza ambasciatori – In Cina e all’estero – 13 settembre 2016
In Cina, dove le ricerche di mercato soffrono spesso di dati approssimativi e non aggiornati, ogni tanto si procede empiricamente col metro. Si misura l’estensione degli scaffali, di un’enoteca per esempio, e poi la sua occupazione da parte di vini italiani. Negli ultimi anni la nostra presenza non è aumentata granché: le mie personali indagini mostrano che occupiamo da 3 al 6% degli scaffali – generalmente intorno al 5% – e la percentuale non dovrebbe cambiare nel settore hotel, ristorazione e catering. Le etichette italiane sono dei soliti grandi vini, con un certo progresso, ultimamente, del prosecco e bollicine. I vini francesi superano il 50% e spesso vanno oltre. La red obsession dei cinesi per i vini francesi (immortalata nel documentario di Russel Crowe) continua, così come l’investimento in bottiglie pregiate, quotate anche nelle aste di Christie’s e Sotheby. Gli scaffali mostrano vini di tutto il mondo (Cile, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, California, Spagna, Germania, ecc.), a riprova che i 5 milioni e passa di ettolitri annualmente importati dalla Cina consentono spazi e prezzi interessanti. A ciò deve sommarsi la produzione interna cinese, in costante aumento in quantità e qualità. E il vino sardo? Ogni tanto si trova una bottiglia in vendita, o si viene a sapere che il tale ristorante ha acquistato del Turriga, Montessu o altro, e ci si precipita, con la nostalgia che ricaccia in gola i prezzi alti. La presenza è scarsissima e saltuaria, nonostante noi abbiamo – sotto la fascia dei grandi vini, a mio giudizio – la più ampia gamma di vini di qualità medio-alta. Le ragioni della nostra invisibilità sono le solite: la mancata presentazione in Asia di un mondo (la Sardegna) che racchiude storia, cultura, natura, anima, ecc.; la frammentazione; la logistica; la non conoscenza del marketing; ecc. Ma seria e bloccante è l’assenza di risorse umane che conoscano a fondo i vini e sappiano presentarli in inglese nelle necessarie sedi. Io conosco un wine educator appena. Come facciamo, senza, adeguati ‘ambasciatori sardi’ a presentare all’estero i vini, i costumi, i giganti di Monte Prama, la nostra storia, la nostra stessa esistenza? Siamo un popolo ancora una volta muto: l’ignoranza ci toglie la voce e ci ricaccia tra gli ultimi.
La nostra identità frantumata – Nuoro e il Redentore – 31 agosto 2016
Mentre la Festa del Redentore non trova come morire degnamente, qui nel tramonto dell’Ortobene, ridotta alla ripetizione dello stesso disco di musica sarda, ore e ore con uguale battuta, ripenso a una poesia in prosa inviatami a Hong Kong da Lino Depalmas, un quarantenne di Lodè che lavora a Berlino. Sintetizzo: “Caro nipote, i tuoi nonni non credono a questo villaggio globale, perché sono orfani di quello vero, orfani della società comunitaria. De sa idda, il piccolo paese dove sono nati e da dove, soffocati dalla miseria, sono scappati in terras anzenas, lavorando e risparmiando per poter spedire i soldi alla famiglia. Con l’animo del contadino e del pastore hanno costruito la propria casa pietra su pietra, grazie a su cambiu torratu, l’aiuto reciproco, perché c’era ancora sa tratentzia, sa vide, sa paraula. Oggi, tutto tace ormai. I nonni non ti chiedono di fare come loro, ti vogliono solo ricordare che loro l’hanno fatto. Tra guerre, malaria, malattie e tanta fame, così tanta che per calmare il maiale affamato suonavano la fisarmonica, e lui si addormentava sognando beato, ma la fame era così tanta che si svegliava più aggressivo di prima. Se i tuoi genitori (e anche tu) hanno avuto la possibilità di studiare e vivere una vita più agiata, è grazie a questi sacrifici. I tuoi genitori purtroppo l’hanno dimenticato. Ormai sono nella lista delle famiglie in povertà. Hanno dilapidato tutto il patrimonio culturale e morale. Sono la nuova figura del povero moderno, in tutti i sensi, ricco solamente di pigrizia e disonore. I tuoi nonni non si sarebbero mai abbassati a petire un’undu ‘e latuca, mentre i terreni intorno sono abbandonati. Ti scrivo queste parole, caro nipote, affinché tu possa perdonarli perché non sanno quello che fanno, ma soprattutto no iskin ki nd’an pèlditu vatta e fame.” — Soprattutto in Sardegna, la nostra generazione (quella dei genitori) ha dilapidato quanto è stato costruito dalla precedente e il patrimonio passato. Lasciamo ai figli una terra in ginocchio e prospettive asfittiche, quelle che derivano dalla frantumazione di uno spirito comunitario antico, perso, ridotto a contemplare anche la Festa del Redentore in pezzi distanti: la religione, i costumi, i cavalli. Chi riuscirà a ricomporre la nostra identità?
Anche Piras-Peron un valore aggiunto – A proposito di Mamoiada – 7 agosto 2016
Biblioteca Satta, Nuoro: presentazione del libro di Luigi Balia Un Mamuthone alla Casa Rosada. La storia di Giuseppe Piras, un emigrante mamoiadino che sembra sia diventato il presidente dell’Argentina Juan Perón, m’interessa molto: ho letto, condotto indagini e soprattutto ho ricostruito diversi ricordi che mi avevano colpito, da piccolo, riguardanti persone non di Mamoiada ma stranamente di Nuoro. Improbabili figure che erano informate di fatti segretissimi come la tumulazione del corpo di Evita Perón, sotto mentite spoglie, nel Cimitero Monumentale di Milano. Ho riportato diversi episodi di questa saga non ancora risolta, romanzandoli, nel mio libro Zia Suelita e il Progetto del Diavolo, ambientato in Argentina. Mi siedo, dunque, ben predisposto ad ascoltare, e sono invece strattonato da commenti dal palco che riguardano: i nostri emigranti, dipinti come velleitari cercatori di città dell’oro (messaggio: meglio fossero rimasti a casa); la qualità della stampa del libro: le carte d’Arborea; paralleli storici dell’immigrazione; i desaparecidos; i rapporti tra Perón e gli USA; ecc. Del contenuto del libro si parla appena, e l’atmosfera è vagamente critica, tipo: ma perché ti occupi del dittatore Perón e non della tua vigna? L’impressione è confermata dal discorso dell’ex sindaco di Mamoiada che non crede all’identità Piras-Perón e rivendica la decisione di non aver voluto trasformare la casa di Giuseppe Piras in un museo. Non m’interessa in questa sede la giustezza o meno della tesi del libro, potremmo parlarne a lungo, quanto l’aspetto di sistematico svilimento del nostro patrimonio. Da un punto di vista di marketing internazionale – e la Sardegna ha un vitale bisogno di marketing e non d’isolamento – la storia di Giuseppe Piras ha una forza straordinaria capace di attrarre visitatori, dibattiti, articoli e appunto libri. Un piccolo museo Piras-Perón, penso, rimarrebbe nell’immaginario degli ospiti di Mamoiada, accrescendone il valore. La misteriosa vicenda rappresenta insomma un patrimonio cadutoci in grembo, che altre nazioni sfrutterebbero sino al nocciolo, con ricadute economiche e d’immagine. Noi cosa portiamo a casa? Mezz’ora d’ironia, la conferma che sappiamo magistralmente buttare tutto in politica, lo sfoggio di una cultura tanto autocentrata quanto inutile. That’s all.
Ma in Barbagia piccolo è bello – E Nuoro resta a guardare – 22 luglio 2016
Den Xiaoping, il ‘paramount leader’ che ha liberato la Cina dagli abissi del maoismo e portato al benessere cinquecento milioni di persone in trentacinque anni (nessuna civiltà al mondo è riuscita a tanto), diceva che ‘la crescita economica pavimenta la strada delle riforme’. La lezione è stata fatta propria, pragmaticamente, dalle grandi città cinesi – Shanghai in primis – che hanno ricercato autonomia politica proprio attraverso lo sviluppo economico e la creazione di opzioni strategiche. Lo spazio di manovra è ottenuto tramite il perseguimento di politiche virtuose che assicurino il benessere a fasce ampie della popolazione, liberando ‘il centro’, Pechino, da ogni problema e dunque in pratica tenendolo discosto. Entro certi limiti – è ovvio – lo sviluppo dischiude dunque la possibilità di riforme ‘nella prassi’ se non ancora nelle leggi. Guardando in quest’ottica la mia Barbagia e i territori limitrofi, vedo che da alcuni anni diversi paesi stanno perseguendo con determinazione e testardaggine una strada di sviluppo turistico-culturale che consente non solo l’apertura verso l’esterno e l’estero, la definizione di una precisa identità e quindi un brand, ma anche una migliore equazione economico-finanziaria e quindi una superiore capacità contrattuale verso le istituzioni centrali, siano esse la Regione, lo Stato, ecc. Dimenticherò certo qualcuno, domando venia, ma è chiaro l’esempio di Galtellì, Dorgali, Mamoiada, e poi ultimamente Gavoi, Oliena, Posada ecc. Mentre altri paesi già si stanno proponendo. Anche il risveglio dell’agroalimentare di qualità appartiene a questo filone culturale, e le ricadute (vedasi ad esempio il Cannonau di Mamoiada) sono rilevanti. In tutto questo fermento Nuoro appare ancora Nuoro, uno strano e scostante organismo che non si decide a indicare una netta strategia, a esprimere una leadership culturale, a guidare con mano ferma il necessario processo di cambiamento territoriale. Tutti guardano a Nuoro, è vero, perché un sistema, una rete, richiederebbe una luce e un coordinamento; tutti ne rimangono delusi – e vanno avanti da soli. Se la magia di Nuoro si manifesta solo nei suoi artisti, per lo più sviliti, smettiamo di sognare un’Atene Sarda e scegliamoci un altro brand, che so, ‘Beata Arroganza’, vedete voi.
Un triste declino sull’Ortobene – Fallimento della politica – 16 luglio 2016
Dopo cinquant’anni di peregrinazioni scolastiche e lavorative nel mondo torno infine a Nuoro, o meglio al Monte Ortobene che secondo Grazia Deledda (e io sono d’accordo) “è l’anima nostra, il nostro carattere, tutto ciò che vi è di grande e di piccolo, di dolce e puro e aspro e doloroso in noi”. Un posto meraviglioso a sei chilometri dal centro città, una località che se non esistesse si dovrebbe inventare: fresca e ombrosa, con panorami e scorci mozzafiato, una miriade di sentieri, fonti, rocce, prati e boschi diversi. Un dono di Dio. Eppure trovo anche qui i segni del fallimento della politica, ormai incapace di dare risposte concrete e promuovere circoli virtuosi: nessun posto letto a disposizione (i turisti arrivano, fanno un giro al Redentore e ripartono), un solo ristorante che lotta per rimanere vivo, nessuna documentazione o strumento in lingua per raccontare una storia affascinante che inizia nel 1600 con la costruzione della prima chiesa, una piscina all’aperto costretta a due mesi scarsi di funzionamento (sembra che il suo completamento sia stato bloccato da ragioni burocratiche), un ostello misteriosamente chiuso, l’imponente scheletro del fu Albergo Esit, un polveroso galoppatoio in disuso, infine la cancellata del parco principale che sembra fatta con lo scarto delle porte del carcere di Badu e’ Carros e con lo stesso spirito creativo. In campagna elettorale, mi raccontano, tutti si impegnano alla valorizzazione del Monte. Poi niente più si muove – manca probabilmente una strategia, un modello di sviluppo, un addensamento di capacità positive, chissà. In tutto questo squallore, sparuti gruppi di volontari, tra cui il Comitato Ultima Spiaggia che continua a distinguersi con azioni di riqualificazione, operano soli e incompresi, variamente osteggiati. Non ho specifiche domande da porre; mi sembra solo che l’incipit di Grazia Deledda “No, non è vero che l’Ortobene possa paragonarsi ad altre montagne; l’Ortobene è uno solo in tutto il mondo” non sia proprio corretto: il nostro Monte è tanto simile da diventare lo stereotipo di tutte le montagne sarde incompiute, abbandonate e svilite da una classe politica incapace e autoreferenziale. Siamo colpevoli e purtroppo complici di questo barbaro declino.
Ciriaco Offeddu
ciriacoffeddu.com