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In memoria del mio amico Hung Der

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Hung Der era nato in un povero villaggio del Guandong, la provincia meridionale della Cina che circonda l’estuario del Pearl River e le due regioni a statuto speciale di Macao da una parte del fiume e Hong Kong dall’altra. La capitale del Guandong è Canton, l’attuale Guangzhou; altre importanti città sono Shenzhen, Dongguan, Foshan e Zhongshan, conosciute dagli italiani (i pochi) che hanno lavorato in Cina nel settore tessile, metalmeccanico, elettronico, del mobile e arredamento, della finanza, ecc. Mi dicono che alcuni nuoresi siano andati alla fiera di Canton, forse la più grande al mondo, in tempi recenti. Il territorio è densamente popolato: il Guangdong dovrebbe contare circa cento milioni di persone. La lingua è il Cantonese, non il Mandarino. Oggi le infrastrutture sono ben sviluppate, il reddito pro-capite superiore alla media cinese. Quasi settanta anni fa, invece, il Guandong era una regione poverissima e insalubre, dove letteralmente si poteva morire e si moriva di fame.

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Il nonno di Hung Der era riuscito a emigrare in Canada prima che il nipote nascesse, una goccia di quel flusso storico di cinesi che hanno costruito le strade e le ferrovie del continente americano, trattati come schiavi, privi di alcun diritto, impossibilitati a tornare in patria. Il nonno di Hung Der ha vissuto da solo per oltre quaranta anni; ha rivisto la moglie e i figli solamente da vecchio, a Hong Kong, e solamente per pochi giorni – non ottenne mai il visto per rientrare in Cina – ed è morto ancora solo. Lavorando e risparmiando aveva però aperto una specie di emporio-bar in un posto freddo e sperduto del Canada centrale, a nord della regione Saskatchewan, una località chiamata Buffalo Narrows. All’inizio degli anni 60, grazie a quella che oggi si chiamerebbe una ‘finestra’, una legge canadese che aveva permesso il ricongiungimento di un familiare, Hung Der, nel frattempo orfano di padre, prese per decisione unanime il posto di un familiare e raggiunse suo nonno in Canada, usando documenti falsi. Entrò così nella categoria dei ‘Paper Son’, figli solo sulla carta di vecchi residenti cinesi in Canada.

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All’età di tredici anni, se non ricordo male, ha lasciato dunque per sempre sua madre, i suoi fratelli e sorelle, la sua terra, e ha preso un vecchio cargo che ha attraversato pericolosamente il Pacifico diretto a Vancouver. Ho letto i suoi ricordi d’infanzia, di viaggio e poi della durissima vita affrontata a Buffalo Narrows, e prima di affezionarmi a Hung Der, a questa persona squisita, a questo dentista elegante e innamorato della vita, ho apprezzato questi racconti che mi hanno fatto sentire piccolo e umile. Le sofferenze umane possono raggiungere vette incredibili, e la storia della sua famiglia è emblematica, crudele sino all’inverosimile, eppure piena di speranza. Ci son volute tre generazioni d’inimmaginabili sofferenze per aprire una porta e far entrare la luce. Hung ha caparbiamente deciso di studiare e ha preso la sua laurea, dando inizio a una nuova fase della storia familiare dei Der.

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Vicino alla pensione ha sentito forte il richiamo della cultura e della letteratura e ci siamo ritrovati insieme, due vecchietti, nelle aule dell’Hong Kong City University piene di giovani da tutto il mondo. Lui arrivava dal Canada, ogni volta felicissimo come un bambino. Ci siamo scambiati libri e pagine, ci siamo corretti vicendevolmente alcuni compiti. Ma quello che ci ha fatto diventare amici è stata la Sardegna. Durante il writing retreat dell’Ottobre 2014 sulle orme di Grazia Deledda, Hung ha scoperto… di essere sardo. Ovvero che le affinità culturali e i valori della sua infanzia perfettamente si adattavano alla nostra terra: il senso della famiglia, il rispetto per gli anziani, il sostanziale matriarcato, l’ospitalità in povertà, il senso ineluttabile di una storia ingiusta, l’incombenza del destino, l’eroismo della persistenza.

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E io ho scoperto, dopo tanti anni di superficialità e di stereotipi, la grandezza del popolo cinese, la loro innata serietà, il calvinismo del lavoro e della sofferenza, la voglia di cambiare le cose e di emergere nonostante duemila anni di fame. Alla fine, Hung Der è stato per me uno specchio doloroso e meraviglioso allo stesso tempo. Mi ha fatto perdere quel poco di arroganza che rimaneva, mi ha aperto gli occhi. Una sera, a Nuoro, mi ha spiegato Grazia Deledda e la mia Barbagia…

Mi chiamava ‘a man for all seasons, bestriding East and West like a colossus’.

Io lo definivo ‘a Chinese-Sardinian Gui-lo’, un forestiero di origini sardo-cinesi. Era certamente un forestiero anche in Canada, ma squisitamente a suo agio ovunque, grazie al suo grande animo.

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Siamo solo di passaggio qui, carissimo Hung, e adesso che sei tornato a casa, lieve e leggero, adesso che hai abbandonato tutte le vischiosità di questa nostra esperienza terrena, dall’alto puoi capire che in fondo siamo tutti uguali, fragili, confusi e spaventati. Basterebbe poco per reimpostare tutto sulla base dell’amore, l’unica cosa che conta, che rimane, e invece ci lasciamo trascinare dalla paura e dalla stupidità. Ti immagino ancora lì, nella Buffalo Narrows ghiacciata e inospitale, nel pianerottolo che è stato il tuo letto per tanti anni, invisibile e marginalizzato dal razzismo, e capisco la tua grandezza, il tuo spirito, il senso di curiosità e d’umorismo che ti trascinava e che affascinava tutti. Un abbraccio, caro Hung: l’ultimo libro che mi hai regalato rimane la nostra parola d’ordine. Ci ritroveremo.

 

Ciriaco Offeddu

ciriacoffeddu.com


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